Flop Azzurro: Spalletti paga per tutti. Ma non è lui il virus di un sistema malato

Flop Azzurro: Spalletti paga per tutti. Ma non è lui il virus di un sistema malato
Ieri alle 19:06Altre notizie
di Massimo Reina
Luciano Spalletti ha le sue colpe. Ma quando una Nazionale implode al primo ostacolo serio, dare tutta la colpa al CT è l’alibi più comodo e più vigliacco.

C’è sempre qualcosa di tragico e teatrale negli addii italiani. Luciano Spalletti, con la voce roca e l’orgoglio ferito, saluta la Nazionale non come chi sceglie di partire, ma come chi viene accompagnato alla porta. “È un esonero, non una mia scelta”, ha detto. E già qui si capisce che non è un congedo, ma un’amputazione.

Si chiude una parentesi breve, intensa, sbagliata. Dove il pressing non è mai riuscito a diventare armonia, dove i volti erano spenti prima ancora che i piedi tremassero. Spalletti, uomo di campo e di parole scelte, lascia con dignità, ma anche con quel filo di veleno che non è mai cattiveria, piuttosto verità mal digerite: “Avrei voluto restare, specie nei momenti bui. Io amo questa maglia, e questi calciatori”.

L’ultima, domani sera contro la Moldavia, sarà una recita triste, con il sipario già calato. Ma il calcio, come la politica, non ama le sfumature. Serviva un colpevole e Spalletti è stato l’indiziato perfetto.

Nel frattempo, si parla di successione, con Stefano Pioli è in vantaggio, ma come da tradizione italica si fa a scarica barile e uno dei principali colpevoli per qualche osservatore e per qualche presidente di A, l'unico), ovvero il presidente della FIGC rimane ben saldo al proprio posto. Anzi, si scandalizza pur se qualcuno chiede le sue dimissioni. 

La solita sceneggiata

Lui no, lui, Gabriele Gravina, è puro. Lui è il demiurgo della nuova alba del calcio italiano – almeno a sentir lui. Gli altri sbagliano, lui guida. Spalletti? Un errore di percorso. I giovani? Non crescono abbastanza in fretta. I club? Pensano solo ai bilanci. Eppure è sotto la sua guida che la Nazionale è sprofondato in un ciclo di mediocrità, qualificazioni mancate, speranze bruciate. E mentre si gioca al rimpallo delle responsabilità, Gravina, come scritto prima, resta ben saldo sulla poltrona – anche perché rinunciare ai 240.000 euro l’anno da presidente del Club Italia, approvati dal consiglio federale nella primavera 2021 (due mesi dopo la sua rielezione), non è esattamente appetibile. A questo si aggiungono i compensi da vicepresidente UEFA, conquistati sempre in quell’aprile magico del 2021, in quella stessa riunione dove si votò contro la Superlega ma non contro l’accumulo di potere e denaro.

Un calcio senza coraggio

La verità è che il calcio italiano è diventato un apparato autoreferenziale, un pachiderma burocratico incapace di autoriformarsi. Si vivacchia tra i successi dei club in Europa – frutto più del mercato e del caso che di un sistema – e si spera sempre in un nuovo exploit azzurro che mascheri le crepe. Ma la coperta è corta. E se si continua a coprire solo le teste visibili, lasciando il corpo del calcio italiano esposto al gelo dell’incompetenza, nessuna rivoluzione sarà mai possibile. Spalletti ha le sue colpe, certo. Ma non è lui il virus. È solo il termometro rotto di un sistema malato. E se nessuno ha il coraggio di toccare i vertici, allora il prossimo flop è già in agenda. Firmato FIGC. Timbrato Gravina.