Ecco un centrale per blindare definitivamente la difesa

Il campionato del mondo è cominciato. Certo detto così fa venire i brividi… diciamo il torneo che comprende parecchie squadre, blasonate e sconosciute. La Juventus lo ha iniziato molto bene con un 5 a 0 contro gli ignoti arabi, che quantomeno fa rinverdire il vecchio adagio, chi ben comincia è a metà dell’opera, come già insegnava Orazio nelle sue Epistole: Dimidium facti, qui coepit, habet. Oggi pomeriggio tocca affrontare il Wydad Casablanca, città cinematografica, romantica, ma non certo di splendenti tradizioni calcistiche. Di sentimentale la squadra ha sicuramente il nome, tanto è che la parola "wydad" significa "amore". La Vecchia Signora, amorevolmente, dovrebbe passare anche l’ostacolo Maghrebino, in attesa della sfida con il Manchester City. Il 5, oltre ai gol fatti, è un numero che evoca, almeno classicamente, quello impresso dietro la casacca dello stopper, colui che prende in consegna il centravanti avversario e lo molla soltanto dopo il triplice fischio finale.
Era il 1996, Andrea Camilleri dopo La Forma dell’Acqua ed Il Cane di Terracotta, pubblica Il Ladro di Merendine, terzo romanzo della serie dedicata alle indagini ed avventure del commissario Montalbano. Braveheart, diretto da Mel Gibson, vince cinque premi Oscar narrando la storia di William Wallace, il ribelle che fra il 1290 e il 1305 guidò i clan scozzesi contro Edoardo I Plantageneto, re d'Inghilterra. Il postino, ultimo film di Massimo Troisi, vince la statuetta per la migliore colonna sonora. La Germania è campione d'Europa sconfiggendo a Londra la Repubblica Ceca per 2-1 al golden gol. I Take That, una boy band britannica formato da cinque componenti, sbancano le classifiche mondiali cantando una cover dei Bee Gees, How Deep Is Your Love, facendo innamorare i giovani e innamorare nuovamente quelli che l’avevano ascoltata la prima volta nel 1977.
Era il 1996 e alla Juventus arriva uno stopper che renderà invulnerabile la difesa bianconera, il suo nome è
Paolo Montero
Che sia un uomo senza fronzoli lo si capisce guardandogli la faccia. Dritto negli occhi no, bisogna avere troppo coraggio. Lo sguardo fiero, i basettoni alla Rodolfo Valentino, i suoi lineamenti spigolosi, gli occhi scuri incavati lasciano ben poco spazio all’immaginazione e le poche parole, tipiche di chi preferisce far parlare i fatti, fanno il resto. Uno di quei giocatori sempre più difficili da reperire al giorno d’oggi, un combattente nato, guidato dalla garra charrúa, la grinta estrema, quella di chi è nato in determinate zone del pianeta, in Sudamerica, precisamente in Uruguay, sulla cui bandiera risplende il Sol de Mayo, simbolo di indipendenza e di libertà. Paese la cui scuola di calcio ha tradizioni antiche e blasonate, in gran contesa con gli argentini per la proprietà del cielo calcistico latino-americano della prima metà del secolo scorso. Un cielo il cui colore celeste, non a caso, compare sulle casacche di entrambe le Nazionali.
All’ombra dell’Estadio Centenario di Montevideo, arena del leggendario Peñarol, sua prima squadra, nasce Paolo Montero il 3 settembre 1971, uno dei centrali difensivi più forti che abbia militato nella Juventus. Forse una premonizione bianconera: quel nome societario, dalla “enne tildata”, deriva dal fatto che i fondatori furono un gruppetto di emigrati italiani provenienti da un paesino alle porte di Torino, Pinerolo.
Nella caliente città del Tango de los tangos, La cumparsita, danza di sangue e di coltelli, di occhiate assassine e di amori perduti, di passione e nostalgia, si segnala ben presto come un talento dal sicuro avvenire, difendendo la squadra giallonera per due stagioni.
Leader nel senso più vero, ma l’unico termine che da solo può sintetizzare la figura di Montero è quello di caudillo: epiteto col quale nei paesi di lingua e cultura spagnola, si indica il capo supremo, il dittatore. Degno successore di Josè Nasazzi e Obdulio Varela, eroici baluardi difensivi della Celeste, campioni del mondo rispettivamente nel Trenta e nel Cinquanta, comanda la sua difesa con una combattività e una furia inimmaginabile. Incontrista feroce e praticamente insuperabile, un senso della posizione perfetto, felinamente intuitivo negli anticipi più condizionati, sicuro negli stacchi e nelle incornate difensive.
Scende in campo e risolve la vicenda come fosse un fatto personale. Bisogna arginare e possibilmente annichilire l’asso avversario? Nessun problema. Ecco Montero, il gangster dei prati verdi, il novello James Cagney, che fa irruzione tra pallone e piede portante, lasciando l’avversario interdetto che invano tenta la replica, ma incespica fatalmente nel suo invincibile rivale. Urla come un ossesso per caricare i compagni e si erge a diga davanti al suo portiere, sempre pronto a far ripartire l’azione. Un gigante fra i giganti della difesa, pur non arrivando al metro e ottanta.
Al comando della linea Maginot bianconera, il cerbero uruguaiano fa strage di numeri 9, senza pietà, con le buone o con le cattive. In serie A, record assoluto, ha collezionato ben sedici cartellini rossi, di cui tre con l’Atalanta, con la quale ha esordito nel ’92, rimanendovi per quattro anni. Nell’estate del ’96 passa alla Juventus campione d’Europa in carica, voluto fortemente da Marcello Lippi; qui incontra l’altro mostro sacro della difesa Ciro Ferrara, col quale forma una delle coppie di centrali più forte al mondo. Con la Juventus in nove anni, conta 277 presenze e 6 reti, conquista una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa Uefa, tre Supercoppe di Lega e cinque scudetti.
Con la sua gloriosa nazionale, la più titolata al mondo, gioca 61 partite, segnando 5 gol. Molti addetti ai lavori lo hanno malamente dipinto – con ingiustificata superficialità – come il cattivo, ma per i tifosi è solo colui che butta il cuore al di là dell’ostacolo, si immola per la causa, coriaceo nella lotta, dando tutto se stesso. Quante volte avremmo voluto essere in campo e magari anche noi dare un calcetto a quel giocatore che faceva troppo il furbo? Bene lui era lì per noi.
E quel “Vamos Vamos” urlato a squarciagola sotto il tunnel prima di entrare in campo, che paura suscitava negli avversari e che grinta dava ai suoi! La sua filosofia di gioco è estremamente pragmatica. Il primo intervento deve essere duro per far capire immediatamente che aria tira. E poi... sotto con la provocazione in campo, tanto da diventare temutissimo dalla maggior parte degli attaccanti che lo affrontano. Parla loro in continuazione, li fa impazzire, e il terrore sale fin negli occhi dei malcapitati nemici, i quali spesso si spostano altrove, se el terrible è nei paraggi. Nessuno lo ha mai sentito lamentarsi. Non lo passavano neppure i raggi Röntgen! Per nessuno è stato facile superarlo, assolutamente impossibile prenderlo in giro sul terreno di gioco. Fuori dal campo verde il montevideano focoso e impulsivo, diventa un ragazzo buono come il pane, dal cuore d’oro dipinto di bianconero. Dice di lui, sorridendo, un suo allenatore: «un galeotto mancato, ma con un suo codice d’onore».
È la fine di giugno del 2006. Gianluca Pessotto è in gravi condizioni in un letto d’ospedale, in rianimazione alle Molinette di Torino. Accanto a lui, ogni giorno, staziona su uno sgabello un suo vecchio compagno di squadra, venuto apposta da Montevideo per non lasciarlo solo. «Gli amici non devono giudicare. Gli amici devono esserci. Rimango sino a quando Gianluca ne ha bisogno», parole di Paolo Montero.
Un uomo, un campione della Vecchia Signora.
Roberto De Frede
Tratto da "Ritratti in bianconero" di Roberto De Frede - https://www.amazon.it/dp/B092PKRN38?ref
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