Apologia del derby della Mole che fu. Oggi tanta amarezza.
Il calcio è qualcosa di più che un semplice sport: è allo stesso tempo arte. Una buona partita di football rappresenta uno spettacolo straordinario di danza, con la caratteristica di trattarsi di una danza improvvisata in ogni suo momento da ventidue ballerini. Il derby ha contemporaneamente le armonie dell’ostinato, ossessivo e sensuale Bolero di Ravel, del romantico e onirico Giselle di Adam e dell’iconico e malinconico Lago dei cigni di Čajkovskij.
Il 15 maggio del 1932, il campionato di serie A entrò per la prima volta nelle case degli italiani. In quel pomeriggio domenicale Nicolò Carosio raccontò in diretta radiofonica, o meglio in una sorta di commento sperimentale non continuativo, il derby piemontese tra la Juventus e il Torino. I bianconeri del Quinquennio al campo Juventus di corso Marsiglia si imposero per tre reti a zero, grazie ai gol di Ferrari, Munerati e Cesarini. È anche la prima stracittadina del calcio italiano disputata nel 1907, la più antica tra squadre ancora esistenti.
Una superba fotografia cittadina del derby la descrive Mario Soldati nel suo Le due città del 1964: «Attraversarono Piazza Vittorio, sterminata nelle ombre della sera. Già parlavano di football. Emilio, naturalmente, era per la Juventus, la squadra dei gentlemen, dei pionieri dell'industria, dei gesuiti, dei benpensanti, di chi aveva fatto il liceo: dei borghesi ricchi. Giraudo, altrettanto naturalmente era per il Toro, la squadra degli operai, degli immigrati dai vicini paesi o dalle province di Cuneo e di Alessandria, di chi aveva fatto le scuole tecniche: dei piccoli-borghesi e dei poveri. Giraudo si appassionava. Sentiva che poteva, senza nessun rischio, trasferire la sua avversione per la Juventus, e nel suo amore per il rosso-granata del Torino, tutto il suo socialismo mortificato».
La Juventus e il Torino hanno rappresentato entrambe le anime della città a seconda dell'intensità assunta nel corso degli anni dal conflitto sociale e dalle trasformazioni produttive. La Juventus, secondo la famosa interpretazione socio-cromatica datane dallo stesso Mario Soldati, incarna soltanto questa seconda Torino: il mondo della borghesia contro il mondo del proletariato? Pare di sì. E perfino i colori sembrano confermarlo: le strisce e il bianco e il nero, prova di anglicismo, di eleganza, di sofisticheria; il granata, nella sua semplicità, di tutto il contrario. La Juventus implacabile e vittoriosa dei cinque campionati consecutivi degli anni Trenta si lega all'immagine di una città efficientistica, distaccata e attenta ai risultati e a quel Piemonte e a quella Torino universalmente noti per giudiziosità, signorilità, tenacia, perseveranza e misura in tutte le cose. La via juventina al mondo passa per il tricolore. Nessuna squadra ha saputo rappresentare tanto, a livello di unità nazionale. Lo dimostrano i milioni di tifosi bianconeri. L’aveva capito bene un illustre juventino: «E tu pretendi di fare la rivoluzione senza sapere i risultati della Juve?». Così Palmiro Togliatti, il segretario del Partito Comunista, rimbrottava Pietro Secchia, il falco stalinista del partito, col berretto simil Toro, in costante ritardo sull’evoluzione del Paese. Togliatti aveva intuito che la Juventus, era sì la squadra dei gentlemen soldatiani, ma anche un mito per le masse del Mezzogiorno, un simbolo di efficienza ed un possibile terreno d’incontro tra capitale e lavoro.
Il derby è l'espressione più estrema di un amore per il calcio che è sia cieco che passionale. Molto più di una partita di pallone, molto più del calcio, che non è mai soltanto ciò che sembra, ma allude sempre, rimanda e collega. Il derby è il grande romanzo della città, una storia condivisa, un’epopea che attraversa il tempo.
Dentro i derby migliori della nostra vita corrono Boniperti e Mazzola, Castano e Meroni, Graziani e Tardelli, Sala e Causio, Furino e Pulici, Rosato e Sivori, Zaccarelli e Platini. E poi Del Piero, Vialli, e i gol all’ultimo istante di Pirlo e Cuadrado. Corrono nel glorioso Filadelfia, nel vecchio Comunale, ma anche al Delle Alpi, all’Olimpico Grande Torino e allo Stadium. Ovunque quei campioni e quella gente abbiano lasciato la loro indelebile traccia, pubblico compreso, corrono ancora, e con essi il tifo, non certo la cornice del quadro, ma il quadro stesso. Insieme ai campioni sfilano la città delle fabbriche e quella delle balere, la Torino dei borghi e quella della tecnologia. Un autentico romanzo dove il fuoco della cronaca, si confronta con la forza della storia. Il derby di Torino è quello che non ha bisogno di luci, né di algoritmi. Illumina e fa cantare inchiostro in rime baciate. Si tramanda come una storia. Come una poesia. Come un pallone che rotola e non si ferma mai.
Tutto questo è quello che la storia ci ha donato ed in prima persona ho visto. Ieri sera anche ho visto… ma nulla di quanto ho scritto qui sopra, se non due portieri che hanno fatto qualcosa in più del loro “dovere”. Nessuna pagina bianconera è stata aggiunta al romanzo, se non trafiletti grigi e fumosi, con tanti dubbi amari per il futuro. Spalletti non è Mago Merlino, e questo lo sapevamo, ma in campo non ci sono neanche i lontani parenti dei cavalieri della Tavola Rotonda.
Temo che la Juventus ai più stia diventando più simpatica, provoca a molti meno stizza e più compiacimento. Ahimè quanto siamo lontani dall’epoca in cui l’indimenticabile Beppe Viola scriveva, col suo spirito caustico: «La Juventus produce successo, quindi invidia».
Roberto De Frede
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