Juve, datti una mossa: serve orgoglio. Il mercato non aspetta

Juve, datti una mossa: serve orgoglio. Il mercato non aspettaTUTTOmercatoWEB.com
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Oggi alle 15:05Primo piano
di Massimo Reina
La dirigenza osserva, riflette, ma non affonda i colpi. E il tempo stringe per certi obiettivi: servono azioni e rinforzi veri, non solo buoni propositi.

Che la Juventus non sia più (o ancora non è) la Juventus lo si capisce da tanti piccoli segni, come il contadino con la vigna che capisce se sarà annata buona o se il vino saprà d’aceto. Da come si muove il cane, da come canta il gallo. Qui, alla Continassa, il gallo non canta più da tempo. E il cane dorme. È finito il tempo in cui bastava uno sguardo da Torino perché mezzo mondo tremasse. Ora la Juve studia, soppesa, analizza. Ma non decide. E mentre il mercato corre, lei resta lì, impantanata in una palude che sa più di consiglio d’amministrazione che di campo sportivo.

Giuntoli è andato, c’è Comolli. Uomo di mestiere, certo, abituato ai dossier più che ai dribbling. Non uno che si butta nella mischia, ma uno che valuta. E la Juve oggi è tutta lì: valutare, ponderare, calcolare. Aspettare, magari che gli altri sbaglino, invece di anticiparli. Come se il calcio fosse un Excel ben compilato e non una partita che a volte si vince di tigna, di cuore, di intuito.

E poi c’è Tudor, guerriero croato con lo sguardo da battaglia e la lingua affilata come un temperino da barbiere. Di idee ne ha, ma guarda attorno e trova poco. Kalulu e Gatti fanno quello che possono. Bremer è ancora mezzo e mezzo, Savona è rotto, Kelly non convince, Cabal, quando tornerà, è un terzino travestito da centrale. E intanto i nomi arrivano, vanno, svaniscono. Mosquera, Leoni, Senesi, Balerdi… tutti "osservati speciali", come nei film, ma nessuno che varchi davvero la soglia.

La Juve studia. Ma poi? Poi niente. Come quasi ogni estate da qualche anno a questa parte, si aspetta di vendere prima di comprare. E quelli da vendere non se ne vogliono andare. Weah fa il difficile, Mbangula pure. Come del resto è nei loro diritti. Ma di fatto c'è gente che in panchina nemmeno si arrabbia. Si siede. E aspetta. Come la società.

Ecco, la Juve oggi è troppo ferma, troppo azienda e troppo poco squadra. Troppa paura di sbagliare, poca voglia di provarci. Eppure questo sport, prima di essere fatto di plusvalenze e di sostenibilità, è fatto di voglia di vincere. Di gente che guarda un ragazzino e dice: “Questo diventerà qualcuno”, e lo prende prima che costi il doppio. Di coraggio, anche. Di passione. Quella roba lì che ti fa fare un'offerta fuori budget, ma col cuore pieno.

Manca il colpo, insomma. Il gesto che ti accende il pubblico, che fa scattare l’applauso anche d’estate, con 38 gradi all’ombra e l’aria condizionata rotta nella sede di Via Druento. Manca l’idea che questa Juve voglia tornare Juve. E allora sì, datti una mossa. Non per la stampa, non per i tifosi avversari e i loro ridicoli sfottò da gente che non vince mai nulla e si esalta per le briciole.

No, fallo per te stessa, per quello che sei, per ciò che rappresenti nel calcio mondiale, storicamente. E per quei milioni di tifosi che ti amano visceralmente, da tutto il mondo, da chi ti segue sempre, in ogni stadio del pianeta con sacrificio, per non farti mai mancare calore e sostegno, a chi lo fa con altri mezzi, magari da casa, ma sempre con quella passione che anima i cuori di chi ama davvero e sogna. Perché a essere azienda son bravi tutti. A essere Juventus no.