Il sugo di tutta la storia
La stagione bianconera è terminata. Un’annata - fino alla conquista della Coppa Italia - trascorsa in una sorta di lazzaretto, anonima, incolore, a tratti patologicamente appestata, sicuramente difficile per tutti, descritta inconsapevolmente da quella penna geniale di Charles Bukowski: «Tutti noi abbiamo bisogno di un’evasione. Le ore sono lunghe e bisogna riempirle in un modo o nell’altro fino alla morte. E, semplicemente, non si trovano tante soddisfazioni e tante emozioni in giro. Le cose diventano quasi subito piatte e insopportabili».
La partita di calcio domenicale - o feriale a seconda degli interessi economici televisivi - della Juventus tanto attesa per appagare e solleticare i nostri entusiasmi, nel campionato appena salutato non è stata una distrazione passionale, bensì spesso madre di rassegnate agonie. Poi, quando meno te lo aspetti, arriva quella coppa nazionale alzata alle stelle e baciata dalla luna romana, un trofeo dal valore fortemente simbolico, salvifico, di rinascita, come la pioggia di manzoniana memoria. Lo stacco che si avverte nella narrazione dei Promessi Sposi dopo la pioggia del lazzaretto e il «risolvimento della natura» intorno a Renzo per l’ultima volta in viaggio, pare voluto in maniera da giustapporre un ciclo di eventi eccezionali e un mondo di nuovo comune, che di essi non conserva se non qualche ricordo, un riflesso più o meno opaco.
Bisogna che la Juventus impari dagli errori commessi e torni nella sua normalità, quella della vittoria, abbandonando per sempre l’eccezionalità della mediocrità.
Renzo, alla fine del romanzo, ama raccontare le sue passate avventure e soprattutto elencare le molte cose che ha imparato per l’avvenire, tra cui non mettersi nei tumulti, non predicare in piazza, non bere troppo, non tenere in mano il martello delle porte quando c’è intorno gente malintenzionata, non attaccarsi un campanello al piede senza prima aver riflettuto, e molte altre cose simili. Lucia, però, trova che nel ragionamento ci sia qualcosa di sbagliato, e a furia di sentirlo ripetere osserva che lei, i guai, non è andata a cercarli ma ne è stata vittima innocente, a meno di non considerare un errore l’essersi innamorata di Renzo. Delle «cent’altre cose» che Renzo pensa ancora d’avere apprese, non resta al lettore che tirar a indovinare, per quanto sia lecito il sospetto che quel numero di gusto un po’ fiabesco, aggiunto alla filastrocca degli «ho imparato», nasconda una punta ironica a carico del personaggio e della sua pretesa «dottrina». Del resto, basta che intervenga Lucia con l’osservazione «sorridente» che «i guai» sono stati loro a venire a cercarla, perché la sicurezza del suo «moralista» si confonda e cada in crisi. In realtà, Renzo deve ammettere, da povero contadino, che il dolore del mondo non si spiega da solo e che «la fiducia in Dio» e nella Provvidenza rimane l’unico conforto per il viaggio misterioso dell’uomo sulla terra. Ma proprio in questo consiste poi la giustizia per cui l’uomo può soffrire e sentirsi fratello di tutti gli oppressi, anche se la paura gli è nota più del coraggio. Mentre si crede di aver toccato un epilogo pacifico, obbediente alla rinunzia o alla rassegnazione, il discorso segreto di tutto il romanzo si rimette in moto e si porta dietro l’angoscia della storia, l’inquietudine della contraddizione, il sentimento dell’assurdo, così come può arrivare sino agli «infimi» della «scala del mondo», nello stupore dolente della loro memoria di «gente perduta sulla terra» che non ha «né anche un padrone». Dove finisce la ricerca di Renzo, comincia forse quella del lettore.
Dopo qualche discussione, i due coniugi concludono infine che i guai capitano spesso a chi si comporta in modo incauto, ma anche a chi non ne ha alcuna colpa, e che in un caso e nell’altro la fiducia in Dio li rende più sopportabili e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, trovata da poveri contadini, sembra all’autore come «il sugo di tutta la storia» e perciò gli sembra opportuno metterla alla fine della sua opera: «La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta».
Affidiamoci allora alla Provvidenza per la prossima stagione calcistica, ma se anche la società bianconera, dopo la filastrocca degli «ho imparato», facesse un buon lavoro, traendo profitto dagli errori commessi (Renzo docet!), saremmo tutti più tranquilli per ritornare ad attendere la partita della Juventus, in Italia, in Europa e oltreoceano, con ottimismo ed emozione, e con quella speranza - somigliante storicamente ad una certezza - di vittoria.
A proposito, mi auguro che i miei editoriali domenicali, cari Lettori, vi abbiano accompagnato sino ad ora piacevolmente tra una partita e l’altra, dandovi spunti di riflessioni spero utili; se invece la noia ha preso il sopravvento, credetemi non è stato per volontà dello scrittore.
Roberto De Frede
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