L’attesa del tifoso bianconero

L’attesa del tifoso bianconeroTUTTOmercatoWEB.com
domenica 12 maggio 2024, 22:21Editoriale
di Roberto De Frede
Noi attendiamo questo e siamo sorpresi da quello… (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, 1953)

Oggi pomeriggio quasi certamente, salvo suicidio sportivo, la Juventus conquisterà contro la già retrocessa Salernitana la tanto agognata partecipazione alla prossima Champions League, un tempo Coppa dei Campioni, quando i campioni erano quelli veri, ovvero soltanto coloro che si potevano fregiare del titolo nazionale. Da quest’anno la giocherà anche chi un tempo non avrebbe partecipato neppure alla Coppa Uefa: altra storia. L’obiettivo “champions” è il più atteso dalla società quotata in borsa, perché porterà nelle sue casse circa venti milioni di euro. Un’attesa economico-commerciale potremmo definirla, che ha poco a che fare con l’albo d’oro e il cuore del tifoso. L’attesa invece passionale e romantica è quella del tifoso che sta precedendo la finale di Coppa Italia contro l’Atalanta: più si avvicina quel giorno e più i battiti del bianconero purosangue, innamorato della Vecchia Signora, accelerano, desiderando più che mai veder trionfare sul campo la Juventus, ammirando il capitano alzare quel trofeo, vinto nel corso di un secolo ben quattordici volte, e metterlo nella bacheca da tempo rimasta a secco di novità.

Sarà il Romanticismo, e Goethe in particolare, a definire l’attesa con desiderio, impazienza e persino con dolore. L’attesa d’amore comincia allora, come ha spiegato Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso: «Sono innamorato? — Sì, perché sto aspettando». L’innamorato sa attendere, ne conosce la passione e il tormento, perché il tempo dell’attesa è un tempo soggettivo, che confina con la noia e con il tedio. Lo scrittore austriaco Alfred Polgar l’ha detto in modo icastico: «Quando, alle dieci e mezzo, guardai l’orologio, erano solo le nove e mezzo». Attendere significa non solo fremere, ma anche annoiarsi e Walter Benjamin ha sottolineato come questa attesa sia piena di promesse, ovvero creativa, dal momento che la noia è «l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza».

Un tempo vuoto, o annoiato, o emozionato, in cui siamo messi in trazione. Fateci caso, anche nel calcio è proprio così, dipende dal momento storico soggettivo che si vive. Le attese domenicali di questa stagione bianconera sono spesso state tediose, in quanto in gran parte colorate da un risultato a priori negativo. L’attesa per la serata romana della finale di Coppa Italia è un’altra cosa, c’è in palio un desiderio tangibile e possibile, ed in una partita “secca”, la noia non può farne parte, anche se la tensione ci trascina comunque verso una incertezza, quella che rende le sfide sportive immortali.

Il bianconero più che aspettarla, l’attende quella sera, come ne ha attese tante nel corso della sua storia. Aspettare è un’occupazione, attendere è uno stato d’animo.

Dall’immagine tesa / vigilo l’istante / con imminenza di attesa – /e non aspetto nessuno. In questi versi di una celebre poesia di Clemente Rèbora tratta dai Canti anonimi, scritta nel 1920, si nota l’opposizione tra due termini apparentemente sinonimici: attendere e aspettare. Ora, aspettare viene da aspicere, guardare; concerne quindi qualcosa di specifico, che si vede avvicinarsi. Attendere, invece, implica un generico stato di tensione, non necessariamente consapevole della propria meta. Rebora, quindi, sfrutta le diverse sfumature per esprimere una condizione paradossale: un’attesa priva di un oggetto definito… la vittoria in Coppa Italia non è certa, ma l’attesa c’è ed è forte. Del resto questo tema è diffuso nella letteratura novecentesca. Un verso di Montale in Ossi di Seppia, ad esempio, recita: «Assente, come manchi in questa plaga / che ti presente e senza te consuma». Anche qui il poeta attende una misteriosa figura salvifica (una ragazza di nome Annetta da lui amata, per timidezza giammai dichiaratosi). E la paradossalità dell’attesa si concretizza in un gioco etimologico: la donna è assente, eppure il presentimento di lei intride tutto il paesaggio circostante. Certo, l’attesa implica anche la possibilità della delusione. Perciò può trasformarsi in un tormento senza scopo, come nella famosa pièce di Beckett Aspettando Godot o nel Deserto dei tartari di Buzzati.

Attendiamo la Coppa Italia, senza tedio, ma goethianamente con desiderio, impazienza e un pizzico di sofferenza, affinchè sia una serata da ricordare come leggendaria; e se la tendenza stagionale della Juventus porterebbe a pensare ad un pronostico negativo privo di fiducia, dico ai pessimisti più accaniti, o ai realisti tristi, che il deus ex machina alato, una Nίκη, può intervenire solo quando ogni speranza umana si è estinta. «L’unica speranza - scriveva Racine - è nella disperazione».

Dell’attesa non possiamo fare a meno: attendiamo il vero amore, lo stipendio, le vacanze, un treno, una licenza, una Coppa Italia! Attendiamo di trovare un senso negli eventi che ci capitano. E, banalmente, ad ogni capodanno riaffermiamo la speranza nel futuro, a prescindere dai pronostici razionali. Ricordate Leopardi e la sua operetta morale Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere? Ancora attualissima, quindi, è la domanda di Pavese: «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?» Attendiamo per essere felici, forse ci illudiamo, ma ne abbiamo bisogno. La Coppa Italia spesso tanto bistrattata, proprio quest’anno è attesa, come un trofeo d’una grande finale, un lasciapassare per ritornare grandi e vincenti.

In effetti che cosa è mai una partita di calcio se non una promessa di vittoria fatta dai calciatori ai propri tifosi?

Roberto De Frede