Un’innocenza ombrata da un'acerba sentenza
Avrei voluto oggi, domenica di Pasqua, scrivere soltanto della riscossa bianconera cercando di emulare Salgari e il suo Sandokan, ma non c’è stata. La Juventus doveva contro la Lazio, dopo la pausa, letteralmente recuperare il campo conquistato dal nemico. Un tempo la riscossa avveniva mediante l’aiuto di schiere spedite in soccorso, le quali perciò venivano dette schiere di riscossa, oggi meno nobilmente sono dette milizie della riserva… Già le riserve. Forse sarebbe il caso ricordare che una squadra forte e vincente è fatta anche di campioni, soprattutto di campioni e qualche gregario. Mai il contrario. Desideravo parlare solo di questo e del futuro della Juventus, non mancherà occasione, sperando di racimolare qualche punto per il famoso, complicato, sfuggente obiettivo stagionale: il quarto posto.
Doverosamente oggi però mi preme terminare il discorso cominciato nello scorso editoriale. Oltre all'episodio del Tempio, il Martedì Santo è il giorno in cui Gesù annuncia ai suoi discepoli il tradimento di Giuda. Un evento che segna l'inizio della sua Passione e che ci porta a riflettere sulla fragilità umana, sul tradimento e sul perdono. E martedi c’è stata anche la sentenza (sportiva…, molto sportiva direi…) di assoluzione del signor Francesco Acerbi calciatore tesserato dell’Inter, farcita con una stridente contraddizione nelle sue motivazioni quando si legge che «il contenuto discriminatorio (delle frasi di Acerbi) senza che per questo venga messa in discussione la buona fede del calciatore della Soc. Napoli, risulta essere stato percepito dal solo calciatore “offeso” (Juan Jesus), senza dunque il supporto di alcun riscontro probatorio esterno, che sia audio, video e finanche testimoniale». Dunque il giudice ammette che le frasi furono pronunciate e che Juan Jesus abbia detto il vero e a nulla rileva che solo lui abbia sentito. Infine: “Rilevato che nella fattispecie la sequenza degli avvenimenti e il contesto dei comportamenti è teoricamente compatibile anche con una diversa ricostruzione dei fatti, essendo raggiunta sicuramente la prova dell’offesa ma rimanendo il contenuto gravemente discriminatorio confinato alle parole del soggetto offeso, senza alcun ulteriore supporto probatorio e indiziario esterno, diretto e indiretto, anche di tipo testimoniale. Ritenuto pertanto che non si raggiunge nella fattispecie il livello minimo di ragionevole certezza circa il contenuto sicuramente discriminatorio dell’offesa recata [...] di non applicare le sanzioni previste dall’art. 28 CGS nei confronti del calciatore Francesco Acerbi (Soc. Internazionale)".
L’articolo 28 del Codice di giustizia sportiva dispone che «costituisce comportamento discriminatorio, sanzionabile quale illecito disciplinare, ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica, ovvero configuri propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori». Trattasi di reato “di pericolo” e a “consumazione istantanea” non richiedendo che l’insulto sia percepito dal destinatario o da una pluralità di soggetti. Basta sia stato pronunciato e ciò, ci dice Mastandrea, è avvenuto. Non solo, egli ribadisce altresì che «la condotta discriminatoria, per la sua intrinseca gravità e intollerabilità, perdipiù quando riferita alla razza, al colore della pelle o alla religione della persona, deve essere sanzionata con la massima severità a norma del Codice di giustizia sportiva e delle norme internazionali sportive». Dunque il reato c’è stato, e va sanzionato, quindi… Acerbi viene assolto.
Insomma assolto non tanto per non aver commesso il fatto ma – un tempo si diceva – per insufficienza di prove (o meglio di prove ulteriori!), nonostante oggi in uno stadio ci siano più telecamere e microfoni che sciarpe e bandiere. Era quest’ultima una vecchia formula di proscioglimento o di assoluzione adottabile, durante la vigenza del vecchio codice di procedura penale, rispettivamente al termine della fase istruttoria o di quella dibattimentale. È stata abrogata dal nuovo codice perché ritenuta in contrasto con la presunzione di non colpevolezza prevista dall'art. 27, comma terzo della Costituzione. L'abrogazione è tuttavia meramente formale. Il comma secondo dell'art. 530 del nuovo codice di procedura penale impone al giudice di pronunciare una sentenza di assoluzione anche quando è insufficiente o contraddittoria la prova che il fatto sussiste o che l'imputato l'abbia commesso. Tale norma elenca le formule di assoluzione tradizionali, contraddistinte da natura tassativa. Le formule “il fatto non sussiste” e “l'imputato non ha commesso il fatto” rappresentano l'assoluzione più ampia, negando il presupposto storico dell'accusa. “Il fatto non costituisce reato” quando il fatto stesso è sì avvenuto ed è stato altresì commesso dall'imputato, ma è assente uno degli elementi tipici della fattispecie, ovvero è ritenuta esistente una causa di giustificazione. Se l'imputato è non punibile o non imputabile, questo viene indicato nella sentenza di assoluzione, ma solo dopo che vi è stato comunque un accertamento del reato e non vi sono dubbi che sia stato commesso dal non imputabile o dal non punibile. L'insufficienza di prove equivale a tutti gli effetti alla mancanza assoluta di prove, mentre per quanto riguarda la contraddittorietà della prova, tale ipotesi si riferisce al caso in cui vi siano sufficienti prove a carico dell'imputato, ma ve ne sono altre e contrapposte prove a discarico, che non consentono di ottenere quella certezza processuale espressa con la formula “al di là di ogni ragionevole dubbio”. La medesima soluzione vale anche con riferimento alla dubbia presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità. Anche il tal caso il giudice è tenuto a propendere per la sentenza di assoluzione.
Il dubbio, scandiva Francesco Carnelutti, è «il germe del processo penale». Esiste, però, anche un dubbio che sopravvive, coriaceo, al procedimento e che l’antica sapienza legale condensava in icastiche ammissioni (non liquet, non consta e simili) dei limiti dell’umana giustizia. La formula dubitativa, tanto «presuntuosamente criticata», non era che l’ammissione – secondo il giurista Girolamo Bellavista - di umana incertezza del giudice. "Il trionfo [...] del dubbio nel processo, id est, del processo come dubbio, si verifica nella fase terminale di esso quando questo si concluda con la formula assolutoria per insufficienza di prove». Ai primi dell’Ottocento, il Consiglio Legislativo del Regno Italico spiegava al viceré Eugenio Beauharnais che la scelta di adottare, nel Terzo Progetto Romagnosi di codice di procedura penale, una formula intermedia per i giudizi di alto criminale (Non consta abbastanza che sia colpevole, art. 492) intendeva sollevare dall’imbarazzo l’«uomo giudice», spesso inchiodato da indizi contrastanti dinanzi al dubbio tra il condannare un innocente e il rischio di «rivomitare nella società un ribaldo».
Qui nessuno vuole far imbarazzare i giudicanti, né tantomeno non concedere il sacrosanto beneficio del dubbio e la presunzione di non colpevolezza, a patto che la legge sia uguale per tutti e che questo assioma non sia soltanto una insegna affissa alle loro spalle, piena di polvere e ragnatele. A questo punto mi viene in mente Annibale Salvemini (alias Alberto Sordi) protagonista del film Tutti dentro il quale con schietto sarcasmo e tragico realismo così la pensava: “Ma dopo le recenti amare esperienze, io mi chiedo se è ancora utile investire tante energie per l’applicazione della legge, o se invece, rinunciando a vacue speranze e ad aspettative mai ripagate, non ci convenisse accettare l’ingiustizia come regola e non come eccezione. Questo nella speranza, ovviamente, che almeno l’ingiustizia sia uguale per tutti!” – E poi aggiungeva – “Scusatemi signori, ma sono inquisito, i giudici mi aspettano!“ L’Albertone nazionale nel 1984 era paradossalmente lungimirante.
Un vero innocente, quello non solo che non nuoce a nessuno ma che ha in sé candide intenzioni, non sarebbe contento di questa assoluzione. Tanta ombra incombe sull’innocenza di Acerbi con quel fantasma dell’offesa non discriminatoria che sembra un niveo sapone alla lavanda per le mani di Ponzio Pilato. O il presidente Mastrandrea ha percorso altri sentieri ben più elevati, sulle tracce del principio del filosofo Gustav Radbruch che così recitava: «il diritto è sempre valido «a meno che il contrasto fra la legge positiva e la giustizia giunga a un grado tale di intollerabilità che la legge in quanto 'diritto ingiusto', debba arretrare di fronte alla giustizia». Vedete anche io ho ora un dubbio. E allora se fosse davvero così la giustizia sportiva sarebbe da riformare da cima a fondo.
Più di Juan Jesus – quale nome più adatto per la giornata odierna - soltanto Acerbi conosce la verità. Mi auguro dal profondo del cuore che il frastuono del Meazza abbia confuso l’udito del brasiliano e che la verità sia quella detta dall’interista e sentenziata dalla giustizia sportiva, affinché la frase di Decimo Giunio Giovenale sia un monito universale ma non applicabile nel caso di Francesco Acerbi: “Questo è il primo dei castighi: nessun colpevole può essere assolto dal tribunale della sua coscienza.”
A tutti i Lettori auguro una buona e serena Santa Pasqua.
Roberto De Frede
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